In occasione della prima settimana dall’uscita di Cygnus Vi omaggio i primi capitoli della storia.

Buona lettura,

 

Tosach (Prologo)

 

Recente passato.

Borgo di Fionnell, foresta di Whoille.

 

๑♖۞♖๑

 

La luna era lì, il giovane alzò gli occhi e la vide. Se le mani non gli fossero state legate sopra la testa, gli sarebbe bastato allungarne una per carezzarla.

Bianca, opalescente, perfetta.

Quando trovava un varco, nella fitta trama di nuvole minacciose di tempesta, spandeva la sua luce diafana, e illuminava il viso sorridente, smilzo e butterato dell’aguzzino. Era empio d’ingiustificata soddisfazione e scellerata crudeltà.

‘Dammi la forza’ implorò il giovane alla luna, prima di rivedere lo scintillio della fiamma riverberare sul ferro rovente. Si sentì mancare, e con tutto il cuore desiderò cadere dentro a una voragine. Precipitando al centro della terra si sarebbe rotto ogni osso del corpo, ma sarebbe stato meglio che patire quell’inaudito tormento.

Non trovava ragione; non esisteva causa che giustificasse un tale supplizio.

Il panico lo travolse, si accalorò mentre gelidi rivoli di sudore gli intirizzirono la pelle. Tese i muscoli, corde vibranti in attesa, gonfiò il petto, tuttavia capì: non sarebbe mai stato pronto. Strinse i denti, la lingua in mezzo, il sapore del rame si mescolò al fiele. Lanciò un’ultima supplica alla luna, ‘Ti prego, ti prego!’ Strizzò gli occhi, dilatò le narici ‘Dammi il coraggio!’ . Luna glielo aveva già donato tutto. L’ultimo alito era volato via, insieme ai brandelli di pelle dell’orecchio, ora ridotto a un moncherino annerito.

Al giovane non rimase altro da fare che implorare il suo aguzzino.

‘Ti supplico, non lo fare! Basta!’

‘Oh, Vostra Grazia, non sopportate il dolore? Eppure siete così grande e grosso! Mostrate un poco di nobiliare contegno!’ L’aguzzino eruppe in una risata sguaiata, poi, come se si trovasse davanti a un montone da marchiare, poggiò la lama sulla carne della povera vittima. La pelle sfrigolò spandendo nell’aria un odore dolciastro. L’urlo del giovane squarciò il silenzio immobile del bosco.

La luna inorridì: troppa malvagità. Si liberò dalla coperta di nuvole e illuminò la sagoma del giovane: un fantoccio accartocciato, con metà del viso sbrodolante.

Era un tragico miscuglio d’immane sofferenza.


Gealach (Luna) ∽∾☾ ∾∽

 

♔AMON

 

Presente.

Rifugio Clan Dougherty.

Me ne stavo appollaiato sul davanzale della finestra, erano le due del mattino, minuto più minuto meno, quella era la terza notte di fila che trascorrevo a scrutare il cielo. Aspettavo che Luna facesse capolino.

Sapevo che era inutile quell’attesa, la volta sopra di me, celeste raramente, era un’interminabile macchia d’inchiostro.

In fin dei conti, che cosa avevo di meglio da fare?

Assolutamente, desolatamente, nulla.

Così, proprio come un innamorato bramoso di scorgere nell’oscurità il viso della donna amata, aspettavo. Avevamo un rapporto speciale Luna ed io, fatto di lunghi silenzi, languidi sguardi, carezze a fior di raggi. Da anni, le dedicavo gran parte delle mie notti. Le bisbigliavo odi, vezzeggiandola con appassionate frasi d’amore, sperticandomi in decantazioni della sua rara bellezza. In cambio lei mi donava la sua luce, l’unica capace di scaldarmi il petto. Mi deliziava con la sua discreta presenza quando più forte avvertivo il peso della solitudine. Mi consolava, se rifuggivo l’immagine di me, orripilante caricatura di ciò che un tempo ero stato.

Quella notte, più delle altre, non vedevo luce, non trovavo pace, neppure il pensiero di Luna accendeva la speranza.

Gocce di vita, brandelli di normale esistenza.

Silenzio.

Oscurità.

Senza Luna, Vendetta avrebbe vinto.

Lei non era una dolce innamorata, bensì una lussuriosa amante.

Crudele smania, feroce brama.

Desiderio, intimo e doloroso.

Un’ossessione.

La mia.

Desiderio e vendetta, in mancanza di tutto, abbagliano un uomo più del faro di Mizen Head; ed io stavo affogando in un mare d’Irish Mist, quando Ronald, poche tracce d’intelligenza su una montagna di muscoli, spalancò la porta della Comunanza, e ne guadagnò il centro. Era la copia esatta di Frankenstein Junior. Solo con più capelli.

«Sai che non gradisco essere disturbato quando sono qua. Che cosa vuoi?» Ronald e il suo piccolo cervello sogghignarono.

«Ho un messaggio per te, capo, è importante.»

«Da parte di chi?»

«Brianna, capo»

«Brianna? E Perché mai non è venuta di persona?»

«Non ha potuto, capo» spiegò il soldato tutto muscoli, «l’ho incontrata al passaggio del diavolo. Più sventola del solito, capo, armata fino ai denti, capo, e poi stava andando da Iron, capo»

«Cosa? Perché?» cominciavo a irritarmi con tutti quei capo, inoltre auspicare che Ronald ricordasse dettagli più importanti, oltre all’avvenenza di Brianna, era come sperare che imparasse le buone maniere.

«Non lo so, capo. É riuscito a scovarla.» ‘Razza di bastardo!’ pensai con un sorrisetto sardonico. Quell’Iron Burke era più efficiente della mafia russa. Per quanto ne sapevo, l’ultimo nascondiglio di Brianna e i suoi era in culo al diavolo! Burke era un demonio lui stesso, losco e pericolosissimo, i Clan gli affidavano traffici poco ortodossi come il reperimento di armi o, all’occorrenza, di droghe. Stava tramando qualcosa, oppure aveva novità. Trovai assai strano che Brianna si stesse muovendo senza di me.

«Il messaggio?»

«L’ha scritto qua» Ronald tirò fuori dalla tasca dei calzoni un foglietto spiegazzato. Cercai di stenderlo con le dita, per renderlo leggibile, poi gli feci segno di andare via ma lui restò immobile. Sapevo che, pur volendo sbirciare, non sarebbe stato in grado di comprendere una parola. Il soldato tutto muscoli a stento scarabocchiava il suo nome.

«Ronald?»

«Sì, capo?»

«Lasciami solo» sembrò deluso, borbottando parole incomprensibili, uscì.

 

Carissimo,

Ho una notizia. Ti prego di essere forte, non lasciare che la rabbia offuschi la tua mente.

L’abbiamo trovata!

Iron l’ha scovata a Kinsale, un piccolo paesino della contea di Galway. Abbiamo frugato nella sua vita e, non ci crederai mai, esiste un modo per attirarla qui. Servirà un tuo aiuto speciale però, e non potrai rifiutarti!

Amon, se l’esca cadesse nelle loro mani prima che nelle nostre, sarebbe la fine. Per noi e per tantissimi innocenti. Ci sarebbe un nuovo “inizio” e questa volta niente fermerebbe la sete di potere dei Molokos.

Con tutto il mio amore,

Brianna.  

 

Il respiro si spezzò, fremiti mi scossero il corpo. Ero incredulo. Sentii le antiche ferite riaprirsi e pulsare di nuovo dolore. Il foglio planò sul pavimento. Le parole che vi erano impresse erano per me fonte di gioia e terribile ansia.

Un nuovo fardello che ingobbiva la mia schiena.

Litir (Lettera) ๑۞๑

 

Il mondo è tuo se lo vuoi, basta stringerlo nel palmo della mano

 

♕ MIREÉN

 

Presente

Kinsale, contea di Galway, Irlanda.

Continuavo a rigirarmi l’elegante busta tra le dita. Più la guardavo più non riuscivo a credere ai miei occhi. Erano trascorsi dieci minuti da quando Jo Mholligham, il vecchio postino di Kinsale, aveva deposto la lettera sul palmo sudaticcio della mia mano. L’uomo, lungo e secco, se ne stava seduto per metà sulla sella della sua vecchia bicicletta, mentre con l’altra metà era chino su di me, e mi fissava. Somigliava a un bue con la psoriasi. ‘E questa cos’è, ragazza?’ sembravano chiedere i suoi acquosi occhi celesti. Assai probabile si fosse fatto un goccetto dalla signora Poldrige. Il suo naso a patata, molto più rosso delle guance, la diceva lunga circa il tasso di alcol presente nel suo sangue. La signora Poldrige, gentile vecchina, vedova da innumerevoli decadi, offriva whisky a chiunque le capitasse a tiro, e a qualsiasi ora.

‘Muori dalla voglia di sapere chi me la manda, non è vero, Jo?’

Se glielo avessi chiesto, ero certa che il vecchio impiccione avrebbe enunciato l’esatto numero di solleciti che Bob Horney riceveva ogni settimana dalla banca. Anni prima, quando gli era misteriosamente dato di volta il cervello, l’uomo aveva acceso un mutuo per acquistare il CRAZY PIG, una bettola fatiscente sulla costa est. Jo teneva anche il conto di quante multe collezionasse il figlio scavezzacollo del sindaco Grady. Il ragazzo era riuscito ad accumularne più di tutta la popolazione dell’intera città. Sospettavo monitorasse anche gli acquisti di costosa lingeria che la signora Berkley, moglie del sacrestano, faceva per corrispondenza.

Jo era molto fiero del suo impertinente acume.

‘Bè, stai fresco se credi che te lo dica.’

Adesso, seduta a gambe incrociate, sul letto sfatto della mia camera, era il mio turno di fissare con ostilità quella busta. Sapevo che il suo contenuto mi avrebbe deluso.

 

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Alla signorina Mireén J. Doyle

Contea di Cork

Città di Kinsale.

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Caratteri celtici impressi con inchiostro dorato. Il mittente era scritto sul retro, proprio sotto l’appariscente sigillo in ceralacca che riproduceva lo stemma del casato. Un cigno con le ali aperte e il collo rivolto al cielo.

 

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Casato degli O’Brien Stone Swan Castle.

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Poche indicazioni ma esaurienti, perché tutti sapevano dove si trovasse il Castello del Cigno di Pietra. A Fionnell, borgo medievale della contea di Galway, provincia del Connacht. E tutti conoscevano gli O’Brien di Galway, discendenti da una delle famiglie più antiche, blasonate e ricche d’Irlanda, che nel Medio Evo avevano governato la città.

Gilroy O’Brien ne era stato il capostipite.

Seduta sul bordo del letto, non avevo il coraggio di affrontare il verdetto.

«Vuoi deciderti ad aprirla?» Odette Marie Oisìn, mia madre, era più nervosa di me. I suoi grandi occhi azzurro cielo mi scrutavano con ostilità, e le labbra carnose erano increspate da una smorfia di disappunto. Con uno scappellotto mi ridestò, così strizzai le palpebre e incassai la testa nelle spalle.

«Ti rendi conto che questa busta deciderà l’andamento del mio umore per i prossimi mesi?»

«Aprila» ordinò spietata.

«Non ne ho il coraggio» la mia voce era talmente bassa che stentai a udirmi io stessa. Mia madre, esasperata, roteò gli occhi.

«Trovalo!» Eravamo molto simili fisicamente: capelli fulvi, lunghi e ondulati, una spruzzata di lentiggini sulla punta del naso, grandi occhi azzurri. Fisico sottile, gambe affusolate e piedi lunghi, che odiavamo entrambe. In quanto a carattere, però, eravamo molto diverse. Seria io, esuberante lei. Pigra io, sempre su di giri lei. In sostanza, vecchia io, giovane e piena di vita lei. E fin qui, con profondo sdegno della nonna, poteva anche starci. Tuttavia, la situazione diveniva gravosa quando era opportuno agire, buttarsi nella mischia, rischiare. Odette era caparbia, coraggiosa, non si arrendeva mai, neppure davanti all’evidente sconfitta. Era una sorta di Brave Heart al femminile. Io ero sempre stata il suo opposto, e in quel momento non ero da meno.

«Mira» sibilò, con un tono che mi aveva sempre fatto tremare le ginocchia. «Non dire sciocchezze e apri quella busta!» Avevo tanto sperato che quella sorta di miracolo si compisse, che quella lettera arrivasse. E il fatto che mi avessero degnato di una risposta era di per sé un miracolo.

 

“I candidati con specializzazione in ‘arte irlandese e/o miti celtici’ godranno di un punteggio maggiore rispetto agli altri.”

 

Col senno di poi, mi ero rimproverata per essere stata tanto impulsiva, nonostante avessi proprio conseguito una sudatissima laurea in Arte e Architettura Irlandese, con un’accurata specializzazione in Studio dei Miti Celtici. Per acquisire quel dottorato avevo attraversato il paese in lungo e in largo. Da Derry, nel profondo Nord, a Trim nella contea di Meath, fino al piccolo villaggio di Cong, dove si erge il bellissimo maniero di Ashford. Settimane in solitaria, ospitata dalla brava gente dei borghi, o alloggiata in piccolissime pensioni delle città più vicine. I miei genitori si erano svenati per farmi frequentare il prestigioso Trinity College di Dublino, e mantenermi nei miei folli viaggi alla ricerca di minuziose faville celtiche. Lavorare allo Stone Swan Castle era stato il sogno di ogni laureando del mio corso, e quel posto da guida sarebbe stato un ottimo modo per dire grazie alla mia famiglia.

«Non sono emotivamente pronta, lo capisci?» Mia madre aggrottò le sopracciglia, gli occhi sottili quasi quanto le labbra. «Mon Dieu!»

«Oh, smetti con questo stupido francese!» Si lamentò, ma quello non era stupido francese. Spesso dimenticava che nelle nostre vene scorreva glorioso sangue normanno, che il suo nome era Odette e che a me avevano affibbiato Justine di secondo.

«Fallo!» ordinò, con un fastidioso indice puntato nella mia direzione. «Oppure preferisci che sia Nonna a farlo per te? Con tutte le conseguenze che ne deriverebbero.» Affilò lo sguardo come fa un gatto quando riesce a mettere in un angolo un topolino.

Nonna, il cui nome era Jorelle, in famiglia era considerata una specie di sergente maggiore. I mezzi che adottava per persuadere la gente erano, come dire… molto efficaci. Quando attaccava a parlare era impossibile che la smettesse, fino a quando punto 1) non otteneva quello che voleva, punto 2) non ti causava un gran mal di testa, punto 3) non le dicevi che aveva assolutamente ragione.

«Madre subdola» borbottati fra i denti. Sapeva come essere persuasiva, anche questa era una sua prerogativa. Io avevo preso tutto dal mio povero papà.

«Allora?»

«Allora, mon Dieu!»

Stretta all’angolo, insieme al topolino, aprii la busta.

 

Gentile signorina Doyle

Facendo seguito alla Sua richiesta, siamo lieti di comunicarle che la sua candidatura è stata accolta, e che potrà prendere servizio la prima settimana di giugno. Troverà le istruzioni per il suo arrivo al castello sul retro della missiva.

Cordialmente,

Signorina Esmeralda O’Toole, governante.

 

Lessi e rilessi la lettera ad alta voce, e quando finalmente mi decisi ad alzare lo sguardo trovai mia madre in lacrime.

«Se il tuo povero papà fosse qui» miagolò con una vocetta tremula. Tirò su col naso e si asciugò gli occhi con la manica della felpa. Sembrava davvero un gattino.

«Fai la donna forte, e poi…» l’afferrai per la manica umidiccia e la stritolai in un abbraccio. Anche a me sarebbe piaciuto farmi un bel pianto in ricordo del mio papà, ma Keiran Doyle, che era stato un gran marinaio e formidabile erede di quattro generazioni di pescatori, nonché il mio eroe, non avrebbe gradito altre lacrime da donnicciole.

«Se il mio povero papà fosse qui» ribattei, abbozzando un sorriso dolceamaro, «avrebbe brontolato qualcosa del tipo ‘e dimmi signorina, quanto hai intenzione di stare via questa volta?’» Cercai di imitare la sua voce bassa e cavernosa, per quanto la ricordassi, ma chiaramente non ci riuscii. La voce di mio padre era unica. Mia madre diceva sempre che sapeva incantare le sirene, sebbene la leggenda di Ulisse narrasse il contrario. A me piaceva pensare che gli fosse accaduto proprio questo, e cioè che una sirena ammaliata dalla sua voce, l’avesse voluto con sé, e se lo fosse preso.

Tre anni orsono, alle prime luci dell’alba, era uscito in mare insieme al suo migliore amico, Cahil Jameson. Erano andati a pesca di coalfish. Un temporale si era trasformato nella tempesta perfetta e li aveva colti impreparati al largo di Westport. Non erano più tornati. Il mare, che tanto amavano, li aveva inghiottiti. Le ricerche erano andate avanti per giorni. Mia madre non si era arresa, neppure quando i resti dell’ODESSA, la loro barca, erano stati ritrovati in mille pezzi. Non c’era giorno in cui non sperava che lui si liberasse dalle grinfie della sirena e tornasse da lei.

«Basta lacrime! Piuttosto aiutami a decidere cosa mettere in valigia, e ti prego, ti prego, aiutami a trovare le parole giuste per dirlo a Winey!» Mia madre si ricompose in fretta e furia, spazzandosi via le lacrime con la punta delle dita.

«Mira, sai che questa volta non esistono parole adatte per dirlo a Winey.» Arricciai le dita dei piedi strette nelle Converse. Aveva ragione.

Winifred Dunn, “Winey” se non volevi beccarti un pugno sul naso, era stata la mia migliore amica fin dall’asilo. Con lei avevo diviso tutto, tranne gli studi e i ragazzi. Durante la mia assenza da Kinsale, per l’università prima e la specializzazione dopo, si era fidanzata quattro volte e tutte le volte era stata crudelmente lasciata. Ed io non ero stata lì a consolarla. L’affronto non mi era stato perdonato, e la nuova partenza avrebbe reso più spinoso il ginepraio in cui mi ero ficcata.

«Vieni con me dai Dunn, dopo cena?» Chiesi a mia madre, sbattendo opportunamente le ciglia e sporgendo il labbro in un magistrale cucchiaino. Di solito, per le richieste ordinarie, bastava uno solo degli stratagemmi sopra elencati, ma per un caso ostico come quello ritenni opportuno impiegare tutte le risorse a mia disposizione.

«Non se ne parla!»

«Ma mamma…»

«No!» Le veniva un feroce mal di testa solo al pensiero d’incontrare Catherine Dunn, madre di Winey. La donna era affetta da una leggerissima forma di logorrea. Nonna Jorelle, in confronto, poteva definirsi una persona taciturna. «L’ultima volta, ho dovuto prendere tre pasticche per farmi passare l’emicrania.» Indignata, mi schiaffò tre dita sotto il naso.

«Tipregotipregotiprego!» Sbuffò, sollevò lo sguardo al soffitto e tacque. ‘Non verrà’ pensai, quando assunse un’aria afflitta.

«É bene che tu sappia che per questo sarai in debito con me, per il resto della vita!»

«Okay» tirai un sospiro di sollievo, sebbene mi sentissi come se avessi appena stipulato un patto col diavolo.

«E prima di uscire, controlla se in casa c’è dell’Aspirina!»

«Sì, mammina.»

 

๑♖۞♖๑

Winey mi odiò profondamente.

Non lo disse, ma i suoi occhi da leonessa ferita parlarono per lei. Si ficcò una mano fra i ricci, tutti capricci, e tentò di dar loro un garbo. Inutile. Erano ostinati quanto la testa che li ospitava.

«Vai, se proprio devi» emise un sospiro stizzito, come se stesse per piangere. «Dopotutto la vita è tua. Sei tornata da pochissimo, ma, va bene» e mandò giù il nodo lacrimoso. Lanciò un’occhiata fuggevole alle nostre madri, sedute sul sofà della cucina, poi tornò a puntare i suoi grandi occhi ostili, e lucidi, su di me. In quel momento compatii mia madre, una ruga le tagliava in due la fronte, mentre la signora Dunn la rimbecilliva con decine di parole compiendo ampi gesti delle mani, atti a dare enfasi ai suoi interminabili sproloqui. «Però, Testa Rossa, non sorprenderti se vorrò Mildred Croomb come damigella d’onore.» Sgranai gli occhi mentre i suoi divennero sottili, la parvenza di pianto represso sparita. Il biscotto all’aneto che tenevo in mano, finì sbriciolato sul tappeto buono del salotto di casa Dunn.

Che affronto.

La mia amica si era fidanzata per la quinta volta. Lo aveva comunicato, con la discrezione che la caratterizzava, non appena la mamma ed io avevamo varcato la soglia di casa sua. A mia volta, le avevo gioiosamente riferito che stavo per partire, e la delusione per il mio reiterato abbandono, le aveva suggerito di non rivelarmi il nome del suo nuovo innamorato. Era stato un dispetto bello e buono.

Mildred Croomb!

Un paio d’ore dopo, sul vialetto dei Dunn, la mamma si reggeva la testa con entrambe le mani, mentre io cercavo di non incespicare nella coda che avevo fra le gambe. Era andata esattamente come avevo immaginato. Di merda.

«Oh Signore! Mi sento come se mi avesse investito il furgoncino del latte!»

«Quello di Austin?» chiesi provando la stessa sensazione. Il furgoncino di Austin era grande quanto un Caravan e aveva ruote rinforzate.

«No, Mira, quello di Milton»

«Quello è un camion!»

«Appunto.» Con aria mesta, presi mia madre sotto braccio, e ci incamminammo verso casa, lei con la solita emicrania, io con il terribile sospetto di aver perso la mia migliore amica. Questa volta per sempre. Ero pronta alla sua collera, e ai suoi piagnistei, Winey era una delle persone più irose, burbere e piagnone che conoscessi. Tuttavia, non ero preparata all’oltraggio che aveva pianificato per punirmi.


Beannacht (Addio) ۞´¯`·.¸¸.°¤

 

♕ MIREÉN

 

Jorelle McLean era nata in Scozia, e anche lei apparteneva a una famiglia di pescatori. Quinta figlia di un vecchio lupo di mare, abitava in un piccolo borgo sulla costa orientale dell’isola. A sedici anni, durante la fiera ittica di Edimburgo, aveva conosciuto il nonno, Kieran Doyle senior, e se ne era perdutamente innamorata. Un mese dopo, i due erano sposati e avevano concepito mio padre. Della sua terra natia, Jorelle aveva conservato, oltre che la smodata passione per i Glasgow Rangers, anche quella per le pietanze tipiche. Fin da piccola mi aveva rimpinzato di Scones, Uggins e Dundee Cake. Fortunatamente, non propinandomeli tutti nel medesimo pasto. Il mio corpo, a quell’epoca in continua mutazione, avrebbe potuto pagare uno scotto esorbitante a causa dell’uvetta sultanina.

I giorni precedenti la mia partenza trascorsero lenti. La mia eccitazione adolescenziale non fece girare più in fretta le lancette dell’orologio, specialmente durante le sere trascorse con Nonna. Con la scusa di prepararmi i miei piatti preferiti, il sergente maggiore mi obbligò a cenare con lei tre sere a settimana. In realtà voleva farmi la solita ramanzina pre partenza. Stranamente, temeva che, prima o poi, sarei tornata a casa incinta. Non avevo mai trovato il coraggio di dirle che a ventiquattro anni ero ancora vergine. Non solo; non avevo mai visto un uomo nudo. Tranne Jimmy Lawson. Tuttavia non credevo contasse, poiché aveva ancora denti da latte, bagnava il letto, con grande disperazione di sua madre, e aveva il brutto vizio di fare le puzzette in pubblico. Non era maturo per i suoi otto anni.

La mattina della partenza, mia mamma mi accompagnò alla stazione insieme alla nonna e, chissà come, questa riuscì a far scivolare alcune banconote (da cento!) nella tasca della mia giacca a vento. Winey era rimasta a casa. Si era chiusa in un silenzio furioso. Sua madre aveva riferito alla mia, che il nuovo fidanzato della figlia era, nientedimeno ché, il figlio scavezzacollo del sindaco Grady. C’era speranza che la mia amica prendesse marito prima dei venticinque anni, e che il giovane Grady smettesse di collezionare multe salatissime. E dunque che Mildred Croomb tenesse il bouquet della sposa al posto mio!

Avevo lasciato la mia casa avvolta da una strana malinconia, avevo chiuso la porta della mia stanza come se non dovessi più riaprirla. Un brivido mi era serpeggiato lungo la schiena, messaggero di sinistri presagi. Durante il tragitto in auto, avevo guardato fuori dal finestrino cercando di memorizzare ogni particolare: abitazioni, alberi, persone. Come se quelle immagini, quella gente, quei posti, fossero destinati a rimanere ricordi del tempo che fu.

Il vecchio treno lasciò la piccola stazione di Kinsale pigramente, come un lento e chiassoso serpentone d’acciaio. La mia mente sembrò staccarsi dalla città natia allo stesso modo: a passo rallentato. Ciuf dopo ciuf, mentre nella testa infuriava una eccitata confusione, il cuore non avrebbe voluto lasciare la rassicurante vita di campagna.

 

๑♖۞♖๑

Qualche ora dopo, alla stazione di Fionnell.

 

McCullum la vide. Lunghi capelli rossi, occhi azzurri, un viso d’angelo, un corpo di donna ancora acerbo. Per un attimo credette di sognare. “Mi sono rimbambito, a forza di stare con questi creduloni”. Poi la osservò meglio mentre, con grande fatica, trascinava un’enorme valigia di plastica viola. Per un soffio evitò di inciampare nei suoi stessi piedi. Con un sorriso che si perse tra i solchi ruvidi delle guance, l’uomo ammise che sì, la giovane era la copia esatta della sua ava. Sogghignò, e se avesse avuto ancora i capelli in testa, se li sarebbe strappati per la contentezza.

Stava per diventare enormemente ricco.

 

๑♖۞♖๑

Il viaggio fino al castello, al contrario dell’attesa per la partenza, fu brevissimo. Esmeralda O’Toole aveva mandato un’auto a prendermi e questo gesto mi rese tutta sorrisi e gridolini entusiasti. L’autista, un uomo di mezza età, in livrea color porpora, mi salutò togliendosi il cappello.

«Sono Neal, signorina, benvenuta nella terra degli O’Brien» accennando un inchino, aprì la portiera dell’auto. Mi chiesi se riservassero questo trattamento a tutti i dipendenti.

«Grazie» balbettai, impacciata fino all’idiozia ricambiai l’inchino. Neal se la rise sotto i baffi mentre io segnai sul tabellino la prima figuraccia.

Almeno avevamo rotto il ghiaccio.

«La signorina Esmeralda la sta aspettando, è molto eccitata per il suo arrivo, sa?»

«Davvero?» avvertivo un leggero ronzio alle orecchie, probabilmente a causa dell’imbarazzo. «E come mai?»

«Bè, la signorina non ha molta compagnia al castello» rispose l’uomo stringendosi nelle spalle. «Spesso è sola per interi giorni. Lei sarà una gradevole compagnia.»

«Pensavo che al castello ci fosse sempre un gran movimento» con le mani feci aria alle orecchie bollenti. La mia avventura nella terra degli O’Brien era iniziata alla grande!

«Movimento?»

«Con le orde di turisti, i seminari per studenti, gli eventi riservati agli ultimi nobili sparpagliati nelle contee vicine, non ci si annoia mai, no?» Neal mi sorrise attraverso lo specchietto retrovisore.

«I turisti si trattengono al castello lo stretto necessario, signorina Doyle. E comunque la signorina O’Toole non ha alcun contatto con studenti o nobili sparpagliati nelle contee vicine.» Il ronzio alle orecchie lasciò il posto a un intenso calore: le fiamme della vergogna.

«La prego, mi chiami pure Mira» sviai, sperando che non mi sbirciasse di nuovo dallo specchietto.

«Mira» ripeté l’uomo con entusiasmo.

La seconda figuraccia era andata.

«E il personale? Non è numeroso? Il castello è molto grande» affermai, questa volta con cognizione di causa.

«Tanto tempo fa, eravamo molti di più» spiegò Neal, «adesso siamo solo in tre, fissi. La pulizia e la manutenzione sono affidate a una ditta esterna. Una volta c’era molto da fare quando tutti i figli del signor Angus vivevano al maniero» sospirò come se stesse ricordando qualcosa di malinconico. «Spesso i loro amici di città venivano a trovarli, si organizzavano feste e caccie alla volpe, e la dimora era sempre piena di gente e allegria, poi…» si fermò, cupo in viso.

«Poi?» chiesi incuriosita. Attraverso lo specchietto, il viso dell’uomo apparve costernato.

«Nulla, signorina Doyle, Mira. Mi scusi, non avrei dovuto.» A quel punto la curiosità mi divorava.

«Non importa Neal.» L’autista si calcò la visiera sugli occhi e si concentrò sulla guida. Per il resto del viaggio non mi rivolse la parola.

Esmeralda O’Toole mi aspettava nella corte interna, avvolta in una pesante mantella di lana. Nonostante fosse primavera inoltrata, faceva ancora freddo. A rischiarare la fitta oscurità, c’era solo la fioca luce di una lampada a olio appesa a una pergola.

«Benvenuta mia cara!» La voce della donna era gioviale, e quando strinse le mie mani gelate nelle sue, calde e ospitali, tutta la tensione accumulata durante il viaggio, sparì.

«Grazie signorina O’Toole»

«Chiamami pure Esme» sorrise e al chiarore della lampada pensai fosse la donna più bella che avessi mai visto in vita mia. Il suo ovale era candido e liscio, e pur sforzandomi non riuscii a darle un’età. ‘Tra i quaranta e i cinquanta’ mi dissi, esclusi i trenta per non rasentare l’esagerazione. «Signorina O’Toole, mi chiama solo il signor Angus, e lui lo fa per dispetto» rise ancora e potei giurare di vederla arrossire. Mi sentii un po’ meno goffa.

«Va bene, Esme»

«Sarai stanca…»

«Mireén» la anticipai, nel caso non ricordasse il mio nome, «ma tutti mi chiamano Mira».

«Mira» ripeté «è un bellissimo diminutivo». A me era sempre sembrato piatto e insignificante. Esme era notevolmente più chic.

«Mia cara, penso che tu non abbia cenato»

«No, in effetti» sperai che il brontolio che giungeva dal mio stomaco non arrivasse alle sue orecchie. I morsi della fame non mi davano tregua. Per la tensione avevo saltato la colazione, e in treno avevo sgranocchiato solo qualche cracker.

«Seguimi, ho fatto mettere in caldo qualcosa per te da Audrina, la nostra cuoca» specificò, dandomi le spalle. «La conoscerai domani. Si lamenta dalla mattina alla sera, ma cucina divinamente!» Annuii con entusiasmo, anche se sapevo che non mi avrebbe vista. Mi sentivo in soggezione e camminavo, respiravo e parlavo solo per inerzia. «Dopo cena ti mostrerò la tua stanza, ti ho sistemata nella torre est. Ti piacerà, vedrai. É un po’ isolata, ma c’è una vista stupenda. Quando non ci sono nuvole di mezzo, l’alba da lassù è uno spettacolo meraviglioso!» Si voltò ridacchiando. Minuta, appariva un fuscello nonostante fosse avviluppata in un ingombrante quantitativo di lana Suffolk. Il viso senza età era incorniciato da boccoli sapientemente sistemati ai lati delle orecchie. La paragonai a una madonna di un quadro di Botticelli.

«Grazie infinite, signorina O’Too… Esme, lei è davvero molto gentile»

«Sono felice che tu sia qui, Mira. Sono certa che diventeremo grandi amiche!»

La cucina era immensa.

I piani di lavoro, posti al centro della grande stanza, erano tre, tutti rigorosamente in massiccio legno di quercia, magnificamente grattati e rovinati dall’uso intensivo. Chissà quante galline e quante oche avevano perso la testa su quei bancali. E quanti conigli, fagiani o capponi erano stati farciti, legati e glassati dalla bravissima Audrina. Pensai cucinasse alla vecchia maniera, e il fatto che dando una rapida occhiata in giro notai che di moderno non c’era in concreto nulla, avvalorò la mia ipotesi. Le pareti, un tempo bianche e ora scrostate per l’umidità, s’intravedevano appena, affollate com’erano di credenze zeppe di stoviglie. I ripiani e le mensole ospitavano decine di barattoli di vetro, con etichette scritte in bella grafia. Conserve di ortaggi, marmellate di ogni tipo, mostarde, zuccheri e diversi tipi di farine erano raggruppati per data di conservazione o acquisto.

Il mio sguardo fu catturato da un banchetto ingombro di vasetti con piantine odorose. A vista ne riconobbi alcune: salvia, timo, rosmarino, basilico rosso. Mi chiesi come facesse quest’ultimo a crescere in un posto così poco adatto alle sue necessità. Dopo questa elucubrazione, l’occhio cadde sulla vecchia stufa a legna ancora accesa. Mia nonna ne aveva una simile, dove soleva cucinare l’Uggins. Questa era due o tre volte più grande e sopra vi sobbolliva una pentola di coccio. Stabilii che dentro ci fosse la mia cena.

Che fossero fagioli?

Scartai questa ipotesi, in prima istanza perché odiavo i fagioli, in seconda perché considerai fosse cibo molto poco da O’Brien.

«Vieni Mira, accomodati qui» seguii Esmeralda oltre i bancali, dove c’era un tavolo addossato al muro, sotto l’enorme finestra a vetri che affacciava direttamente sul piccolo giardino. Da lì, attraverso un viale lastricato, cinto da siepi di stramaledetto Carpino, si accedeva alla rimessa delle auto.

«Che buon odore» cinguettai eccitata. La donna aveva scoperchiato la pentola per rimestare il contenuto. Non potevano essere fagioli, il profumo era troppo buono.

«É la famigerata zuppa del boscaiolo di Audrina» annunciò con enfasi la governante. Il mio stomaco esalò l’ultimo brontolio. «Verdure, patate e carne di manzo, con aggiunta di un ingrediente segreto. Spero ti piaccia.» A quel punto era tale la debolezza che mi sarebbero andati bene anche i fagioli. «In realtà, so che ti piacerà» decretò la donna. «Come ho detto la nostra cuoca è molto brava.» Mi accomodai mentre lei prendeva la pentola dalla stufa e la adagiava su una piastrella. Quando scoperchiò di nuovo il recipiente di coccio, questa volta per servirmi, pensai che sarei svenuta. Il profumo si spanse nell’aria, facendomi salire l’acquolina in bocca. Guardai con ingordigia il mestolo vuoto affondare nella pentola e riemergere carico di zuppa fumante.

«Salvo che…» Esmeralda aggrottò le sopracciglia, e si fermò col mestolo a mezz’aria. ‘No!’ «Tu non sia vegetariana o vegana. O qualche altra diavoleria simile. Il terzo genito del signor O’Brien, Ian, per un periodo è stato vegano. Audrina è impazzita a stargli dietro con germogli di piante e stravaganze simili. I ragazzi, oggi giorno, hanno strane opinioni su come nutrirsi.» La ascoltai distratta da una sola idea in testa: spazzolare tutto non appena si fosse voltata, o evaporata insieme agli effluvi della zuppa.

«Non si preoccupi, sono carnivora» Esmeralda riempì la ciotola fino all’orlo, poi esaudì il mio desiderio.

«Vado di là» annunciò e ripose il mestolo dentro la pentola. «Neal attende istruzioni per domattina. Serviti pure, mia cara» con un gesto della mano, mostrò la quantità di cibo di cui la tavola era imbandita: burro, pane, formaggio, frutta. A me interessava soltanto la pentola con la zuppa.

Eala (Cigno) ƸӜƷ

 

Prima della verità c’è sempre una bugia.

 

♕ MIREÉN

 

«Esme?» In piedi, accanto al camino, Esmeralda sobbalzò. Indossava un elegante tailleur bordò di velluto a coste, che faceva impallidire il mio, di uno sbiadito color cipria. Avevo impiegato mezz’ora a decidere cosa indossare, e il risultato era stato comunque deludente. Appuntai mentalmente che col primo stipendio sarei andata in città a fare un po’ di shopping, anche se, ripensandoci, avevo da parte il piccolo tesoretto allungatomi dalla nonna in stazione.

‘Magari al primo giorno di libertà’ decisi. Avrei avuto un giorno di libertà? ‘Chiedere alla prima occasione’ anche questo lo appuntai nella mia testa.

Truccata e pettinata alla perfezione, la governante sembrava una diva del cinema americano degli anni trenta. In quell’istante ricordai il nome su cui avevo rimuginato prima di addormentarmi. Greta Garbo. “La divina” aveva tratti magnifici, innate raffinatezza ed eleganza, proprio come la signorina O’Toole. Anche se, per questioni anagrafiche, era vero il contrario. La stanza adibita alla colazione era adiacente al grande salone principale, cioè a quello maestoso e con i soffitti altissimi, mentre quella in cui mi trovavo era di medie dimensioni, e la constatazione mi stupì non poco poiché, la planimetria, studiata durante il corso di laurea, indicava che quel luogo sarebbe dovuto essere grande almeno due volte di più. Le pareti erano quasi per intero coperte da arazzi in vivaci colori, evocanti scene cruente di battaglia.

Cosa ne avevano fatto del resto?

Non c’erano altre porte all’interno, la stanza era tutta lì.

Esmeralda sorseggiava seraficamente il suo tè.

«Buongiorno, mia cara. Hai dormito bene?»

«Bene, grazie.» Era una bugia. Mi avvicinai al piccolo tavolo del buffet e presi a riempirmi il piatto di uova, bacon e pudding. Arraffai l’elegante teiera e mi versai il liquido bollente in una tazza da latte. Lo bevvi seduta stante, nero e senza zucchero, poi occupai posto al piccolo tavolo, sistemato troppo lontano dal camino.

Avevo freddissimo.

«Oggi è più fresco di ieri» si lamentò la donna, sebbene fresco fosse un eufemismo. ‘Mi rimpinzerò come un tacchino’ dissi a me stessa, non trovando altra soluzione all’annoso problema.

«La primavera ci ha sfiorato soltanto quest’anno, chissà se arriverà almeno un po’ d’estate.» Dubitai fortemente, ma replicai con un laconico «Mm».

La mia stanza era quella da cui si godeva la migliore vista dell’alba, ammesso che la nebbia perenne che avvolgeva le torrette, qualche volta, si diradasse consentendo di vederla. Di sicuro era anche la più gelida del castello. Il fuoco, durante la notte, si era spento ed io mi ero svegliata battendo i denti. E poi quel fastidioso, molesto vento…

Avrei dovuto dirlo, far presente che nelle notti a venire rischiavo di morire congelata o d’infarto. E se questo non fosse accaduto, non volevo neppure buscarmi una polmonite la prima settimana del mio fantastiglioso nuovo lavoro. Tuttavia, non mi parve appropriato lamentarmi dell’ospitalità gratuita, il primo giorno.

‘Terzo appunto, alla prima occasione, magari fra due tre giorni… se sopravvivrò’.

La mia agenda mentale stava riempiendosi di appunti, e ricordarli tutti sarebbe stata un’impresa titanica, come resistere alle intemperie del Connacht.

Addentai un toast e ingurgitai una generosa quantità di uova.

«Il signor Angus vuole conoscerti» annunciò Esmeralda, come se stesse parlando ancora del tempo. Mandai giù il boccone, ma questo scelse di raggiungere lo stomaco per una via traversa e cominciai a tossire furiosamente.

«Mira!» urlò Esmeralda, precipitandosi al tavolo della colazione. Per un pelo non le cadde la tazza dalle mani. Benedetta donna; non poteva comunicarmi una notizia simile e immaginare che ne uscissi indenne. Specialmente con una tale quantità di cibo dentro alla bocca. «Non vorrai lasciarci così presto?» scherzò, ed io, ancora cianotica, tentai di rassicurarla con gli occhi.

«Sto bene» fiatai appena, dopo aver mandato giù tutto il tè nella tazza.

«Cara ragazza, hai forse timore d’incontrare il tuo datore di lavoro?» Esmeralda sbatté le lunghe ciglia abbellite da una generosa dose di mascara. Il fatto che avesse centrato la causa del mio quasi soffocamento al primo colpo m’irritò.

Io non avevo timore del mio datore di lavoro, ne ero terrorizzata!

Avevo trascorso tutto il tragitto in treno, pregando che il vecchio Angus fosse partito per uno dei suoi consueti viaggi in rappresentanza della fondazione benefica di cui era presidente. Atteso con trepidazione dal capo di stato di qualche paese sperduto dell’Africa Sud, Est, Equatoriale, Sahariana, nel deserto dei Gobi, o giù di lì.

Per quel poco che avevo letto di lui sulla sua biografia, non ufficiale e non autorizzata, sembrava che non fosse proprio un compagnone. “Burbero e assai esigente” erano le parole che più mi avevano dato i brividi. Certo, era anche avanti con gli anni, aveva superato i settanta, benché si dicesse che fosse stato arcigno anche in gioventù.

«Bè, no» esitai in cerca delle parole giuste. «Vede, ho letto degli O’Brien nei libri di scuola, ho studiato la loro storia, ammirato le loro imprese. Lavorare allo Stone Swan Castle è sempre stato il mio sogno, fin dal primo giorno di università.» Respirai a fondo poiché mi sentivo gonfia d’emozione e povera d’ossigeno. «Per dirla tutta, lavorare in questo luogo era il sogno di ogni studente del mio corso.» La governante sorrise con comprensione. «Ed io mi sento poco sicura di me. Questo è il mio primo impiego, e magari al signor Angus non piacerò; magari mi troverà troppo giovane e inesperta… Conoscere Angus O’Brien III!» Scossi la testa, ancora incredula. Ed ecco che finalmente realizzavo la portata dell’intera vicenda.

Nonostante mi trovassi dentro il suo castello, avessi rischiato il congelamento in una delle sue torrette, e fossi stata sul punto di morire a causa delle sue uova, non riuscivo a capacitarmi che stessi per conoscerlo. «Sono emozionata, onorata, soprattutto intimorita dall’idea di non impressionarlo. O comunque di farlo nella maniera sbagliata, ed essere rispedita a casa col primo treno. Ecco, l’ho detto.»

Esmeralda appoggiò una mano sulla mia spalla.

«Cara ragazza» disse in tono materno, «è stato il signor Angus in persona a sceglierti.» Davanti al mio sbigottimento, la governante annuì con decisione.

«Sul serio?»

«Ha vagliato di persona le richieste dei candidati e non è arrivato neppure a metà di quelle pervenute. Quando ha letto le tue credenziali ha urlato: “Signorina O’Toole, scriva a questa ragazza. Voglio lei!” Naturalmente nessuno ha sindacato circa la sua decisione»

«Non capisco» borbottai trasecolata.

«Non c’è nulla da capire» sentenziò Esmeralda. «Hai i requisiti richiesti per questo impiego. Riguardo all’esperienza…» si strinse nelle voluminose spalline imbottite della giacca. «Bisogna pur cominciare in qualche modo.» Annuii, sebbene fossi ancora incredula. «Termina la tua colazione e poi vai nella stanza blu. Ti sta aspettando. É la prima porta…»

«So dov’è» la interruppi, torcendomi le mani per la tensione. «Ho studiato la planimetria e conosco la posizione e la caratteristica principale di ogni stanza. La stanza blu è molto bella, ma la mia preferita è la stanza del cigno.» ‘A proposito: dov’è il resto di questa?’ Esmeralda s’irrigidì, restrinse le palpebre e il sorriso sparì dalle labbra.

«Eri mai stata qui, prima d’ora?» Assottigliai a mia volta le palpebre. «Come turista, intendo.»

«Non ero mai stata qui. Ciò che so, l’ho appreso dai libri. Tuttavia ho studiato questo luogo fin nei minimi particolari.» La donna assentì.

«Dimmi, sai perché lo stemma degli O’Brien è un cigno con le ali aperte e il collo rivolto al cielo?» Se prima ero rimasta sbigottita, ora dovetti morsicarmi la lingua per non scoppiare a ridere.

«Intende se conosco la leggenda del cigno di pietra?» Era proprio una domanda sciocca. La governante annuì con una strana luce negli occhi, come se quel quesito celasse una sorta di sfida.

La leggenda del castello era scritta su tutti i coupon illustrativi dello Stone Swan Castle, la si trovava sul sito web, e persino sui moduli per le richieste d’iscrizione ai corsi. Era un’attrattiva, se non l’attrattiva principale, che spingeva ogni anno orde di turisti a visitarlo.

«La conosco» risposi, imponendomi di non aggiungere un secco “naturalmente”. Nel mio percorso formativo avevo letto quella storia talmente tante volte che avevo finito per impararla a memoria. Avevo addirittura incentrato la mia tesi di laurea su di essa.

La leggenda ஜ♖♖♖ஜ

 

Isabeau, figlia del signore di Dunghall s’innamorò, ricambiata, di Ayamonn, figlio del signore di Fionnell.

Il padre di Ayamonn, però, aveva in segreto combinato il matrimonio con Muirín, sorella gemella di Isabeau. Il ragazzo disobbedì al padre e rifiutò il matrimonio. Muirín, gelosa, decise di vendicare l’affronto rivolgendosi alla potente strega Oluba, discendente diretta di Charram, la dea della magia oscura, di cui era fervente discepola. Oluba preparò un incantesimo terribile. Il primo plenilunio del primo mese di primavera, se Isabeau fosse stata inviolata, e cioè non si fosse ancora concessa al suo innamorato, il suo corpo si sarebbe dissolto e la sua anima sarebbe volata via, in cerca di un altro involucro che la ospitasse. Ayamonn amava Isabeau di un amore puro, acerbo e spirituale; non l’avrebbe mai posseduta prima delle nozze, previste per il solstizio d’estate.

L’amore sincero del ragazzo decretò la sorte della sua amata.

Nella data stabilita l’incantesimo si compì, il corpo di Isabeau svanì, costringendo la sua anima a vagare in cerca di un altro. Lo trovò in una creatura che stava venendo al mondo in quell’istante, un cigno.

Ayamonn si disperò notte e giorno per la scomparsa della sua promessa, ma mai, neppure per un istante, pensò di piegarsi al volere del padre, o della perfida Muirín.

Aspettò il ritorno di colei che adorava per giorni, mesi, anni. Infine, quando la disperazione lo indebolì, decise di raggiungere la sua Isabeau, ovunque lei si trovasse.

Vagò senza meta, fino a quando, nei meandri della foresta di Whoille, si ritrovò nei pressi di un laghetto, e nell’ultima ora di luce si fermò per rifocillarsi. A un tratto, di fronte a sé, scorse un bellissimo cigno, col collo rivolto al cielo e le ali spiegate in un perfetto ventaglio bianco. Ad Ayamonn bastò uno sguardo per capire che quella creatura era la sua amata.

E così, non si allontanò più da quel luogo incantato. In suo onore fece erigere un grande castello, e quando il cigno morì fece scolpire la sua effigie, custodendola e venerandola per il resto dei suoi giorni.

Non si sposò mai.

๑♖۞♖๑

 

«Vedi?» Esmeralda sfoderò un’espressione compiaciuta, «più requisiti di questi?».

Con ancora la tazza di tè in mano, volò via dalla stanza, leggera come una libellula.


Nioclás Conchobhar O’Brien ♚

 

Il mio cuore palpita per te, mio primo amore.

 

♕ MIREÉN

 

Feci capolino dopo aver dato un leggero colpetto alla porta socchiusa, Angus O’Brien mi aspettava seduto alla grande scrivania di rovere, leggeva il giornale e fumava la pipa.

«É permesso?»

«Si accomodi, signorina Doyle» posò la pipa su di un posacenere di marmo, si alzò dalla poltroncina e tese la mano magra. Aveva dita lunghe e sottili come grissini. Era uguale alle foto pubblicate sui libri di testo, in quanto alle note sul suo carattere, sperai fossero esagerate. Altissimo, smilzo, con abbondanti capelli giallo paglierino, che un tempo dovevano essere stati rossissimi, aveva grandi occhi azzurri e lineamenti gentili, nonostante i marcati segni del tempo. Anche il suo studio era come mi aspettavo: pareti tappezzate di broccato blu, soffitto con enormi travi a vista, da cui pendevano maestosi candelieri a otto bracci, il grande camino (sopra di cui era appeso un suo ritratto), acceso e scoppiettante, e la famosa libreria di famiglia dove facevano bella mostra numerosissimi testi antichi… to be continued…

 

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